Come noto, l’agricoltura è di per sé attività con un impatto apprezzabile sulla natura. Al posto di una o poche specie/varietà/razze gestite in modo semplificato, la natura vorrebbe una molteplicità di specie, varietà e razze fortemente variabili e interagenti, in continua evoluzione verso un equilibrio complesso. Tanto è più grande la semplificazione messa in atto dal processo agricolo, tanto più forte tende ad essere il contrasto posto in essere dai processi naturali che continuano a premere secondo le proprie leggi fondamentali.

La battaglia tra agricoltura e processi naturali che l’uomo ha intrapreso – e che se non trova una soluzione più armonica potrebbe portarlo brevemente all’estinzione – è stata finora condotta con approcci diversi. Semplificando, possiamo avere due estremi: un approccio duro dell’agricoltura che si può definire industriale, in cui si impiega molta energia e si cerca di piegare allo scopo i fattori di produzione naturali con un alto input di fattori esterni, e l’approccio dell’agricoltura sostenibile in cui la strategia è quella di rendere i processi agricoli i più vicini possibile a quelli naturali, cercando di conoscere il meglio possibile questi ultimi per introdurre input esterni al minimo, così riducendo la forza della reazione.

L’agricoltura industriale prevede l’utilizzo in serie di tutti gli input disponibili al massimo livello, in modo da evitare ogni interferenza sui parametri di produzione; il campo è visto quasi come un capannone industriale in cui standardizzare il processo il più possibile, per ottenere il massimo possibile dall’unità di superficie. Nell’approccio industriale un ruolo importante ha l’uso di fitofarmaci in modo preventivo, con lo scopo di liberare il campo da ogni parassita in grado di interferire con lo sviluppo della coltura a prescindere da valutazioni sulla effettiva dannosità dei parassiti, le cosiddette soglie d’intervento, e sulla eventuale esistenza di equilibri naturali in grado già da soli di evitare danni apprezzabili.

A questa categoria appartengono gli insetticidi neonicotinoidi, particolarmente nell’uso come conciante del seme, che deve eliminare sia i parassiti in grado di danneggiare la parte sotterranea della coltura sia quelli che attaccano la parte esterna; ciò è possibile perché questi insetticidi sono sistemici, cioè in grado di essere traslocati in tutti i tessuti della pianta e quindi in grado di uccidere insetti che succhiano o masticano le foglie.

La sistemicità di questi insetticidi, unita alla loro capacità di uccidere gli organismi con concentrazioni basse di sostanza attiva, causa un fortissimo impatto sull’ambiente. Tali molecole, distribuite in modo crescente su milioni di ettari coltivati, per la gran parte finiscono nei terreni e nelle acque; queste ultime, oltre a diventare tossiche per molti organismi che vi vivono, le distribuiscono ovunque, cosicché vengono assorbite dalle piante spontanee le quali diventano tossiche per gli organismi che vi si nutrono, ad esempio succhiando le foglie o prelevando il nettare. Ciò ha influenza negativa sugli animali che si nutrono di insetti, sia perché diminuisce il cibo, sia perché questo, quando disponibile, può essere contaminato; e così via nella catena trofica in cui l’uomo è inserito.

Ormai i neonicotinoidi, come molti altri pesticidi, sono presenti negli alimenti e dentro i nostri corpi ed hanno diminuito la consistenza delle comunità di molti organismi e causato devastanti modifiche negli ambienti coltivati e naturali. A tal proposito, la campagna di informazione contro i pesticidi ‘Cambia la Terra’ ha promosso un esperimento sociale in cui diverse famiglie si sono sottoposte ad analisi del sangue prima e dopo 15 giorni di dieta totalmente bio: il risultato è stato che tutti i membri di una famiglia di 4 persone che si è prestata all’esperimento risultavano avere dapprima tutti urine contaminate da glifosato, clorpirifos e due metaboliti dei piretroidi; in seguito alla dieta bio oltre l’80% dei valori delle analisi era diminuito in modo significativo (1).

In sintesi i neonicotinoidi hanno già danneggiato l’ambiente sull’intero pianeta, interferendo pesantemente sui cicli della vita, causando mortalità di api, impollinatori selvatici, farfalle e molti altri insetti: lombrichi, uccelli, invertebrati del suolo e dell’acqua, che sono alla base della catena alimentare e dei servizi ecosistemici, tra cui c’è anche il servizio di impollinazione delle api, che consente la produzione delle colture agrarie e quindi l’approvvigionamento di cibo per l’uomo. Uno studio pubblicato dalla rivista americana Science rileva una contaminazione nel 75% dei campioni di miele provenienti da tutto il mondo(2).

In altre parole, stanno minando la base della vita; e tutto questo per quale vantaggio? In quasi trent’anni di esperimenti ed osservazioni appare chiaro che i vantaggi per gli agricoltori sono limitati o assenti – per una coltura diffusissima come il mais – a fronte di apprezzabili costi di utilizzo e modesti o assenti incrementi produttivi, mentre la resistenza dei parassiti alle molecole sta pericolosamente crescendo (3).

Francesca Chiarini per Commissione Agricoltura e Ambiente

 

Fonti:

(1) https://www.cambialaterra.it/ipesticididentrodinoi/

(2) http://lameladinewton-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it/2017/11/30/il-miele-al-tempo-dei-neonicotinoidi-ricordiamoci-delle-api/?refresh_ce

(3) http://www.tfsp.info